giovedì 18 maggio 2017

La Poesia di Tommaso Romano

di Gonzalo Alvarez Garcia.

La poesia di Tommaso Romano lascia nel palato estetico del lettore il sapore di sensazioni, a prima vista, contrastanti. Ama l’antica nobiltà della parola, nelle cui radici palpita ancora il fervore con cui generazioni e generazioni di antenati scolpirono lo spazio umano che ci appartiene: la Cultura, la Storia. Sceglie le parole ad una ad una, come chi sceglie un’amicizia. Le contempla, le pesa nella bilancia, le lascia decantare nell’alambicco della propria sensibilità, e le assegna una nicchia precisa nelle edicole del suo tempio poetico.
Viene in mente, leggendo “Dilivrarmi”, ultima delle sue raccolte poetiche, il fervore con cui gli egregi maestri scalpellini senza nome ornarono i grandi santuari medioevali: Chartres, Vezelay, Santiago de Compostela…
La luminosità e la sonorità, discreta, delle parole rimanda al profilo di frontespizi prestigiosi, quasi a voler suggerire la prevalenza del prospetto.
Ma ecco che, appena varcato il vestibolo, il lettore scopre la penombra delle antiche navate, le domande che non hannorisposta, l’indefinibile confine tra l’istante e l’eternità…
“Nel giorno della farfalla / che vive l’attimo che si posa/ e vola/ immune da ogni pensiero/ di fine, /libera/ di respirare bellezza/ volteggiando lieve / alla ragione incatenata / alla logica del tempo/ al buio della notte:/ non dura/ eppure permane allo sguardo/ il silenzioso batter/ d‘ali impalpabili”.
Nascosto dietro il chiaro frontone permane, inevitabile, il nostro irrinunciabile spazio esistenziale, il Mistero “al buio della notte”.
 In tempi come il nostro, che sfacciatamente privilegia la facciata, non è scarso merito che un poeta ci guidi amabilmente all’ Interiorità.


Palermo, 12.12.2010.

mercoledì 17 maggio 2017

Il progetto di Tommaso Romano: Una destra d'ispirazione cristiana

di Piero Vassallo

Il presente testo è l'esito di una lunga e avvincente conversazione con Tommaso Romano, uno fra i più autorevoli e geniali interpreti della destra felicemente non compromessa con l'azzoppante/incapacitante disordine finiano, ossia testimone di un pensiero non devastato e non depistato dal delirio al galoppo nel vuoto mentale.
L'ingente opera di Tommaso Romano contiene, oltre la esatta misurazione del malessere gongolante nell'area destra, assordata dai megafoni del nulla, la ragione dell'obbligo di restaurare la fedeltà della politica ai princìpi del diritto naturale. Obbligo scioccamente disatteso dal disordine mentale al potere nella destra, durante l'infelice, sgangherata e sconquassante segreteria di Gianfranco Fini.
Alla cultura della destra nazionale (ridotta al lumicino da una gestione incoerente e dispersiva, quasi al limite della flatulenza urlante) incombe l'obbligo di affermare e diffondere la tradizione cattolica, la sola atta a contrastare il desolante malessere di stampo laicista e massonico.
La destra – secondo la cultura fedele alla indeclinabile tradizione – è l'antidoto al sistema della menzogna, che avvilisce e avvelena gli italiani e abbassa la politica nazionale al livello di un umiliante sedile offerto alle incubose, dirompenti natiche della cancelliera di Germania.
Il fondamento spirituale della vera destra è, infatti, la fedeltà a quella sapienza cristiana, irriducibile ai teutonici furori, sapienza che ha attribuito alla nazione italiana, luce del Medioevo e intralcio alla rivoluzione, un indeclinabile primato spirituale e civile.
Ora la cultura della destra italiana è strutturalmente cattolica, ossia, giusta la definizione di Francisco Elias de Tejada, fedele a una tradizione spirituale, refrattaria alle chimere modernizzanti, che volano – indisturbate – nei circoli (o pii circhi) disorientati e paralizzati dalla strutturale fragilità, ultimamente al potere nel Vaticano.
Il compito di una destra fedele al primato, che compete alla nobile tradizione nazionale, è dunque la netta separazione della strenua conformità ai princìpi cattolici dalla sterile e vana tentazione di imitare le teologiche, modernizzanti acrobazie, messe in scena dalla volubilità del clero affarista e politicante.
L'orizzonte della destra è la risoluta confutazione degli errori generati dalla fantasticheria contemplante una nebbiogena confusione tra progresso temporale e progresso intellettuale.
Di qui la tenace e intelligente fedeltà di Tommaso Romano, in questo degno erede e continuatore dell'opera di De Tejada, oltre che testimone di un cattolicesimo immune dalle tentazioni al compromesso, voglie circolanti e scivolanti nei nudi e talora osceni corridoi del potere clericale.
L'attività culturale e politica svolta fedelmente da Tommaso Romano, infatti, percorre, con acuta e disciplinata intelligenza, una via divergente dal conformismo, fanfara che avvilisce e tormenta i margini e le cupole della Chiesa post-conciliare.
Da tale azione discende l'autorità, che ha fatto avanzare il pensatore ed editore Tommaso Romano nella prima e prestigiosa fila del cattolicesimo immune e refrattario ai suoni sgradevoli, prodotti delle trombe squillanti nei teatri occupati dalla disgustosa cagnara prodotta dai modernisti.
da: Contravveleni e Antidoti 
13 Maggio 2017

Questo è il mio commento che ho pubblicato sulla mia pagina facebook

Una testimonianza del grande Amico e straordinario pensatore Piero Vassallo, di Genova ,che da misura di un sodalizio che data ben 45 anni e che si e' sempre cementato in comuni orizzonti ideali e di azione tradizionale nella fedelta' anzitutto a Gesu' Cristo .Ormai fuori per mia volonta' da tutte le possibili e impossibili destre,il mio unico progetto,senza nulla rinnegare della mia formazione e del mio passato,e' fornire qualche idea a tutti coloro che non vogliono abdicare al nulla.Grazie con cuore Amico ,carissimo Piero,e grazie per quello che generosamente hai voluto scrivere,ammirazione per la tua coerente attivita' e per il tuo magistero vivo.

martedì 16 maggio 2017

Sandra V. Guddo, "L'incontenibile versatilità" (Ed. CO.S.MOS)

di Antonio Martorana

Ancora fresco di stampa il saggio di Sandra Guddo L’ Incontenibile versatilità. Pensiero e Ricerca nei Saggi di Tommaso Romano. (San Cipirello, CO.S.MOS “ 2016 ) non farà pensare certo ad un granello di sabbia che, trascinato dal vento, va ad aggregarsi agli altri granelli di quell’imponente duna che è la bibliografia contenuta nel repertorio  Continuum. Bibliografia di e su Tommaso Romano” a cura di Vito Mauro ( Palermo 2015 ).
A ben vedere, le due metafore da noi usate, quella del granello di sabbia per il testo di Sandra Guddo e quello della duna per la bibliografia romaniana, si rivelano assolutamente inappropriate, visto che la sabbia evoca instabilità e dispersione. Qui, in entrambi i casi, siamo in presenza invece di contributi testimoniali ed ermeneutici che hanno la solidità della roccia, indicando in Tommaso Romano uno tra i più autorevoli protagonisti della cultura del nostro tempo.
Il merito di Sandra Guddo, nel focalizzare l’imponente e poliedrica produzione saggistica di Tommaso Romano, nella quale ella ravvisa i segni di una “ incontenibile versatilità” speculativa e creativa, consiste in una sorta di “ prolungamento” della comunicazione autoriale, nell’intento, adattando al caso nostro le parole di Gérard Genette << di presentarlo, appunto, nel senso corrente del termine, ma anche nel senso più forte: per renderlo presente, per assicurare la sua presenza nel mondo, la sua “ ricezione” e il suo consumo, in forma, oggi almeno, di libro >>( G.Genette, Soglie. I dintorni del testo, tr.it. Torino, Einaudi, 1987, p.3 ) .
Si tratta dunque di una forma che, senza trasbordare dalla terminologia genettiana, potremmo definire di “ accompagnamento “, dall’ampiezza di una sessantina di pagine, il cui  spessore ermeneutico e la cui cifra di propedeuticità, tali da farci entrare nel vivo della densa problematicità dello scrittore palermitano.
Fortemente pragmatico è dunque l’intento di tale forma di accompagnamento, assimilabile alla pragmaticità di contributi paratestuali di carattere liminare o “ vestibolare” ( un aggettivo coniato da Borges), quali possono essere le introduzioni, le prefazioni e le postfazioni allografe. L’aspetto funzionale del saggio, nella circolarità del suo percorso ermeneutico, consiste nel rimandare all’incidenza prassica della materializzazione grafica delle idee professate da Romano che non  incise nel vento, destinate ad avere la vita effimera di un volantino pubblicitario, ma rappresentano tasselli di una weltanschauung dalla forte presa “ fattuale “ nel suo incardinarsi su tre motivi essenziali: ricerca inesausta della verità, strenua difesa della dignità dell’uomo, insopprimibile aspirazione  verso l’Assoluto.
Sandra Guddo evidenzia tutte le preoccupazioni avvertite dal Nostro nel porsi dinanzi alle criticità del presente e la sua consapevolezza  di quali siano gli anticorpi per combattere le patologie che affliggono la nostra società. E’ da sperare veramente che, ove quegli anticorpi dovessero
rivelarsi vincenti, un giorno sarà possibile vedere il personaggio kafkianoe di Gregorio Samsa che con una impressionante metamorfosi è trasformato “ in un enorme insetto immondo”,alzarsi dal suo letto completamente guarito.
E’ il profilo di un Romano combattivo e pungente quello tracciato da Sandra Guddo, un Romano pronto a denunciare storture, squilibri, inefficienze, improvvisazioni, come quelli che hanno travolto il settore scolastico, acuendo la crisi di identità del mondo giovanile o quelli che hanno procurato ferite ormai insanabili all’ambiente.
L’impegno di Romano sui vari versanti risponde a precise ragioni di storicità empirica, che non escludono la possibilità di riscatto, a patto , egli potrebbe dire, facendo sue le parole di un suo Maestro e amico, Vittorio Vettori, << che l’individuo umano sappia riconquistare la sua regale dignità nativa di “ pastore dell’essere”, e restituire ai suoi luoghi il loro valore di mito >> ( V. Vettori, Un inventore di miti: Galeffi, PalermoIla Palma, q987, pag.62).
E’ il paradigma valoriale di cui T. Romano è portatore a conferirgli la dignità “ di pastore dell’essere” in grado di stringere un legame indissolubile tra la simbologia salvifica del mito con l’ontologia della propria terrestrità. Diciamo questo pensando ad un concetto espresso da Heidegger nella sua famosa conferenza tenuta a Roma nel 1936 su Holderlin e l’essenza della poesia: <<  Che cosa deve attestare l’uomo? La sua appartenenza alla terra”.
Dalla monografia viene puntualmente delineato il percorso formativo del Nostro, dalla tradizione speculativa siciliana avviata da Gorgia ed Empedocle, ad Agostino e Tommaso, sino a Giovanni Gentile e Martin Heidegger. Il Nostro sarà rimasto certamente colpito dal linguaggio ispirato di Heidegger  nell’affermare : “ I sentieri del pensiero nascondono in sé un aspetto di mistero: noi li possiamo percorrere in un senso o nell’altro; anzi proprio il percorrerli a ritroso consente di avanzare”.
E Tommaso Romano non ha esitato a percorrere a ritroso i sentieri della Tradizione, sapendo che non si sarebbe perduto, ma avrebbe potuto cogliere, e stavolta vogliamo usare le parole del maestro di Heidegger, Edmund Hursserl, “ nello svolgimento storico il senso teleologico perduto”.
L’esperienza in tal senso di Romano ci riporta al significato di ogni umana avventura tesa alla conquista dell’autocoscienza individuale, rintracciabile in interiore homine.
E’ proprio guardando ad un paradigma di assoluto rigore comportamentale nella riscoperta, per ciascun individuo, dell’identità autentica, che l’écriture di Romano si carica di una tensione illocutoria, mirante ad incidere sulle coscienze. Potremmo definirla una scrittura produttiva, proliferante scrittura come significance. ( M.C. Cedern, Postfazione a Genette, Soglie, cit. 411)
Parlare di scrittura produttiva significa parlare di scrittura veicolante una cultura concreta ma noi preferiremmo usare l’espressione tedesca Konkrete bildung, proprio perché l’inversione, rispetto all’italiano, dell’aggettivo Konkrete che precede il sostantivo Kultur, accentua il valore prassico dell’espressione.
Nell’accostarsi ai libri di Romano è come se Sandra Guddo ottemperasse al precetto di Francis Otto Matthiessen, il famoso autore di quel classico che è American Renaissance, del 1941: “ Tu non tocchi un libro, tocchi un uomo” . Toccare l’uomo Romano ha significato per lei entrare in sintonia con il mondo valoriale della sua ècriture, condividendone soprattutto l’autenticità e l’apertura agli altri. Adottando tali termini nell’accezione heideggeriana, l’autenticità( Eigentlichkeit ) è speculare all’intento dell’ esserci ( Dasein ) di appropriarsi di sé, progettandosi ed evitando di cadere “ nell’oblio di sé “, nel “ divertimento “ ed in quella “ chiacchiera “ che caratterizzata dalla genericità delle opinioni impersonali. Proprio nell’intreccio dei citati sintomi di scadimento qualitativo della quotidianità viene a manifestarsi la deiezione ( verfallen) .
Romano mostra di condividere il paradigma heideggeriano, che, in un certo senso ci ricorda quello elaborato da un altro Maestro a lui molto caro : Michele Federico Sciacca.
 Cogliamo infatti una notevole affinità tra la forte immagine heideggeriana del “ vortice della deiezione “ come condizione esistenziale di inautenticità, e quelle che Sciacca addita come le due tendenze “ inumane e mortifere “ dell’uomo contemporaneo, e cioè “ vivere nel tempo e vivere fuori del tempo”,  intendendo con la prima espressione “ il tuffo nell’empirico, la sopravvalutazione del mondano”, e , con la seconda, la scelta dell’isolamento, indice di svalutazione del mondo e dell’umano”. Alla ricerca heideggeriana di autenticità corrisponde l’opzione sciacchiana per “ vivere il tempo “. Ciò comporta riscattare il tempo dall’empirico e dal mondano, eternandolo “ nell’immortalità della verità “ , per cui l’uomo è uomo ed è immortale “ ( M. F. Sciacca, L’Interiorità oggettiva, Palermo, Epos, 1989, pp. 91-92 ).
E Romano nel vivere heideggerianamente in modo autentico, è soggetto che  sciacchianamente “ vive il tempo”.
Per quanto riguarda l’apertura o “ aperturalità “ ( Erschlossenheit ) la familiarità di Romano nel rapportarsi con gli altri rispecchia pienamente il concetto heideggeriano indicante il carattere costitutivo di un esserci che è intrinsecamente un esporsi al mondo, e , dunque un << essere- nel- mondo >> ( In – der- Weltsein ) .
E’ dunque questo il bagaglio valoriale che Romano porta con sé lungo la via in fondo alla quale dimora l’Essere. Ed in questo suo cammino è come se egli ripercorresse il diagramma che Heidegger ha tracciato, quando, in un momento epocale di crisi, ha individuato la soluzione del problema capitale della cultura contemporanea nella necessità del passaggio dalla parola della sapienza ( di una sapienza ormai scaduta nella banalità e nella falsità ) alla sapienza della parola, (di una parola capace di sollevarsi dal piano cartaceo alla luminosità del noumeno). La nostra saggista coglie l’essenza di quella Weltanschauung, ossia di un mondo di valori ultrasensibili, in cui si condensa la vita stessa del pensiero, inteso non come speculum naturae, in base ad una formula intellettualistica, ma come potentia et dominium, esplicantesi in un imperativo etico in stretta sinapsi con una logica, per cui il particolare si inserisce nella trama dell’universale, di quello che Romano definisce Mosaicosmo.
Aderendo a quella visione, Sandra Guddo indica in Tommaso Romano un vero maìtre à penser, il senso del cui magistero consiste nel non disperdere il retaggio “ della nostra più autentica tradizione che non può essere messa in discussione da un pasticciato sincretismo svuotato da ogni valore “. Si tratta di una scelta coerente che impone di non abboccare alla lusinghe di un successo facile e di non salire “ sulla giostra della vanità in cerca di plausi e di ipocriti consensi “. Pag. 8
L’impegno da parte di Romano a recuperare la tradizione si riaggancia idealmente, a nostro avviso,  alla ermeneutica gadameriana  che trova la sua più significativa testimonianza nell’opera Wahrheit und methode ( trad. it. Verità e Metodo, Milano 1972).
Troviamo qui infatti una rivalutazione piena del concetto di tradizione, nel convincimento che, come commenta Franco Bianco, “ il compito cui attendere viene ad essere, capovolgendo l’itinerario della fenomenologia hegeliana, la scoperta di ogni soggettività della sostanzialità che la determina o in altri termini, l’ineliminabile appartenenza dell’autore e del testo da interpretare al concetto di tradizione “.
E’ davvero illuminante il seguente passo della citata opera gadameriana : “ Ciò che riempie la nostra coscienza storica è sempre una molteplicità di voci, nelle quali risuona il passato. Solo nella molteplicità di tali voci il passato c’è: questo costituisce l’essenza della tradizione” ( H. G. Gadamer, Verità e Metodo, trad. it. , Milano Fabbri, 1972, pag. 333).
La posizione nettamente rivalutativa da parte del grande filosofo svizzero tende a colpire l’assurdità del disprezzo illuministico nei confronti di una tradizione, considerata come avvolta dalle nebbie dell’oscurantismo. A ben vedere , non si discosta da quella posizione lo stesso Romano, come si evince dai toni fortemente polemici nei confronti dell’illuminismo, nelle pagine introduttive di Antimoderni e critici della modernità in Sicilia dal ‘700 ai nostri giorni ( Palermo, ISSPE, 2012 ).
Piena deve essere la condivisione, da parte dello studioso palermitano, del tentativo autorevole di Gadamer di spazzare via “ la duplice ipoteca del disprezzo illuministico e della riduzione ( della tradizione) all’ambito della fenomenologia folclorica”. “ La tradizione “ avverte Gadamer “ possiede un certo diritto e determina in larga misura le nostre posizioni e i nostri comportamenti “ ( op. cit.). Essa viene vista da Romano come un immenso bacino aurifero di significati che non devono essere recepiti passivamente, come lo stesso Gadamer avverte, perché trovano legittimazione nel fatto di essersi manifestati in un passato più o meno lontano. La sua comprensione si rivela dunque essenziale per dare senso a quell’invariante che è la transizione di un patrimonio antropologico da un antecedente a un conseguente.
Si tratta di una complessa fenomenologia che Saint – Evremond, con una specie di fulgurazione preromantica, aveva definito génie, come complesso di sentimenti e di idee che germinano nella tensione degli eventi e sono soggetti a mutamenti lungo il corso della storia, costituendo un patrimonio comune del popolo. Romano si è sempre battuto contro i tentativi di mummificazione di quella fenomenologia, come se si trattasse di un semplice reperto museale. Sa che essa va collocata “ sul tapis roulant della storia, attraverso un processo di conservazione/ innovazione nel quale si realizzano in modo diversamente tematizzati, le molteplici possibilità di inserimento del passato nel presente “ ( Carlo Prandi ).
Proprio in Tommaso Romano, come sottolinea Antonino Buttitta, in un passo riportato nella monografia, va vista l’ultima propaggine  della grande tradizione speculativa siciliana, che da Gorgia ed Empedocle giunge a Giovanni Gentile, Pietro Mignosi, Julius Evola e Michele Federico Sciacca.
Romano guarda a quella tradizione intuendone la duplicità: da un lato il filone allineato sulle posizioni della modernità, dall’altro una “linea antimoderna”, annoverante una schiera di spiriti attestati su posizioni rigorosamente tradizionaliste in una trincea che ai tempi nostri, per usare le sue stesse parole, “ quasi indiscriminatamente e con altezzosa superiorità intellettuale si vuole misconoscere e/o annullare o, al massimo citare storicisticamente , come una specie di curiosità, una stravaganza frutto di élites marginali che il tempo, il progresso, inteso appunto come culto, hanno provveduto a delegittimare, cancellando senza neppure un confronto, perché ritenute insignificanti e sostanzialmente antistoriche, velleitarie” ( T. Romano , Antistorici e critici della modernità).
Quella del Nostro è dunque l’appassionata difesa dei membri di una “ genealogia” sulla cui pelle l’infame gnome di tribunali eretti sotto l’egida delle nuove veggenze del filosofare, inneggianti alla ragione e al progresso, aveva impresso un marchio di oscurantismo, condannandoli all’emarginazione e all’oblio. Era la ritorsione scellerata per avere essi osato muovere all’assalto dei possenti bastioni di una logica intorbidata dal veleno dell’empietà e assunta a vessillo del nuovo corso del pensiero europeo dopo il successo della Rivoluzione Francese.
A costoro Romano rende giustizia, consegnandoli alla memoria collettiva nella galleria di ritratti allegata in quel vademecum che è la citata ricerca “ Antimoderni e critici della modernità “.
E’ ravvisabile in loro, la traccia indelebile di quel “ filosofare perenne come scoperta della verità” di cui parla Michele F. Sciacca, precisando: << Scoperta non sviluppo: la filosofia come sviluppo della verità e dell’idealismo storicista, che in definitiva lo nega perché in partenza annulla ogni vero. La filosofia come scoperta della verità è di un altro idealismo, di quello oggettivo che non fa nascere quest’ultima dallo sviluppo del pensiero, ma fa nascere lo sviluppo del pensiero dalla verità, come tale superstorica. >> ( M. F. Sciacca “ L’Interiorità oggettiva , Palermo, Ed. Epos, 1989, p.18).
Significativo è il tentativo, da parte di Romano di coniugare l’aspirazione di Julius Evola alla “ ricostruzione del mondo delle tradizioni”, una realtà superstorica basata sui valori del sacro e dell’eterno, con lo spirito dell’Enciclica Aeterni Patris ( 1879 ) tramite la quale Leone XIII afferma la perenne validità della filosofia di San Tommaso.
Consapevole dunque che il tomismo è la dottrina che meglio si armonizza con la visione cristiana del mondo, Romano si riaggancia alla lezione dei grandi pensatori siciliani che in quell’orbita si muovono, come Francesco Orestano, Pietro Mignosi, Carmelo Ottaviano e Michele F. Sciacca. A quest’ultimo egli attribuisce il merito di aver individuato il germe di un “ autentico ateismo” nascosto nelle pieghe del moralistico trascendentalismo kantiano e di avere individuato in quel pensiero che cartesianamente conferma la nostra condizione di esseri pensanti, la prova antropologica dell’esistenza di Dio che è, in un certo senso, l’umanizzazione della prova ontologica di Sant’Anselmo. Definendo l’autocoscienza come “ la specificazione primale dell’interiorità oggettiva o della verità prima “. ( M.F. sciacca L’Interiorità Oggettiva, op.cit. p.84 ) , Sciacca rileva come essa nel suo stesso seno , “ negli elementi unificati che la costituiscono : Esistenza – Idea- presenta quanto basta per inferire oggettivamente l’esistenza di Dio, che è verità” (Ivi p.85).
Sandra Guddo richiama l’attenzione sulla centralità che, nella scia della lezione sciacchiana, ha, nella riflessione del Nostro, il nesso indissolubile tra dimensione temporale e dimensione trascendentale. Così come centrale è pure il riconoscimento del valore della Persona, che sicuramente riteniamo di potere collegare al personalismo di Emmanuel Mounier, centrato sul binomio libertà – trascendenza, nel segno dell’apertura agli altri e al divino. Lungi dall’essere una monade nel Mosaicosmo  romaniano, la Persona si realizza in una comunità che, nella visione di Mounier è “ persona collettiva “ o “ persona di persone “.
Sandra Guddo evidenzia la scelta coraggiosa da parte di Romano, di andare controcorrente, rivelandosi egli una di quelle forze, per usare un’espressione di Alfred Weber , “ capaci di interrompere il procedere della notte” ( A. Weber, Storia della cultura come sociologia della cultura, tr. It. Palermo, Novecento, 1983, p.491).  E quell’oscurità incombente sembra prefigurata dall’immagine agghiacciante della “ morte della luce” che oggi, in tempi di globalizzazione, di pensiero debole e di società liquida, si associa all’altra della “ perdita del centro “.
Romano non demorde, fiero di non piegarsi alle forze egemoniche che detengono il controllo dell’odierno panorama culturale e che mirano a canalizzare i consensi in direzione di quel paradigma onnivoro che è “ il pensiero unico “.
E’ il pensiero unico ad imporre i suoi parametri ai media ad alla manualistica scolastica, occultando quelle verità che potrebbero metterne in discussione la credibilità per indurre all’assuefazione ad un sapere trasformatosi in rapporto di potere. Romano, nel denunciare questa continua aggressione all’autonomia critica degli individui , troverebbe un alleato in Franco Ferrarotti, uno dei pochi spiriti liberi che non ci stanno a quel gioco. L’illustre sociologo ha levato infatti la sua voce autorevole contro la “ differenziazione qualitativa tra ricercatori e gruppi umani che sono oggetto di ricerca “. E’ una differenziazione, egli avverte, “ spacciata come metodologicamente ineliminabile che, alla fine si traduce in un rapporto di dominio nel senso che istituisce un rapporto ad una via soltanto, dai ricercatori agli oggetti di ricerca, riducendo questi ultimi alla fissità passiva ( … ) del minerale. Il sapere si trasforma così in un rapporto di potere. L’etnocentrismo si nutre di questo rapporto a - simmetrico  e giustifica anche a livello inconscio, una situazione di subalternità e di dipendenza a carico dei gruppi umani analizzati. La ricerca viene così a porsi come un processo di dominazione “.
Nella propria azione di contrasto alle distorsioni ed alle menzogne imposteci dalla gestione imperialistica dei saperi, il Nostro punta tutto sulla costruzione di categorie mentali che siano il filo di Arianna per farci trovare l’uscita dal labirinto dell’omologazione e per consentirci la riappropriazione delle matrici antropologiche e dei valori fondanti della grande tradizione culturale siciliana e meridionale.
Romano si configura dunque come l’accesa espressione resistenziale contro la colonizzazione culturale il cui obiettivo primario è l’omologazione delle minoranze tramite l’introduzione di modelli valoriali eteronomi ( morals ) , in sostituzione di quelli tradizionali ( mores ). Opportunamente l’Autrice richiama allora l’attenzione sul significato che assume nel Nostro, il richiamo alla memoria, rilevando come questa non consista “ nella melensa nostalgia rivolta al passato con il cieco rifiuto di quanto la moderna tecnologia oggi ci offre “  ma vada considerata come argine a “ salvaguardia di valori assoluti fondanti la nostra identità culturale e spirituale” ( pag. 88 ).
Da qui la conflittualità ingaggiata da Romano contro quell’autentico “ tritatutto dove non c’è spazio per il ricordo “ che è “ la macchina mediatica “ ( pag.5 ). Egli, peraltro, è consapevole che pervenire al controllo della memoria e dell’oblio, è stato sempre l’obiettivo primario dei gruppi egemoni nelle società storiche e che, come avverte Jacques Le Goff , gli oblii della storia non fanno che disvelare i meccanismi di manipolazione della memoria collettiva. L’insistenza sul tema della manipolazione fa intravedere, se ci è consentita una chiosa personale, suggeritaci peraltro dalle stesse considerazioni dell’Autrice, l’ampio orizzonte di riferimento cui si riallaccia idealmente la posizione di Romano, a cominciare da Georges Orwell, il romanziere noto per avere coniato l’immagine del “ Grande Fratello “ , alludente ad un potere occulto capace di coordinare i mezzi di comunicazione per piegarli ai propri fini politici ed economici.
Evidentemente Romano si pone con piena autonomia nella scia di una corrente di pensiero che fa capo alla “ teoria critica della società “ elaborata dalla scuola di Francoforte nonché al sociologo statunitense Vance Packard ( I Persuasori Occulti, 1957). Si spiega la sua tenacia nel mettere in guardia dal pericolo che la potente oligarchia di tecnocrati, sfruttando sofisticate tecniche motivazionali ( opinion makers ) gestisca l’ audience appeal subliminale in modo da inibire l’autonomia critica del destinatario, riducendolo ad un “ esemplare generico assolutamente sostituibile “ a “ consumatore in servizio permanente effettivo “. Egli avverte allora la necessità di costruire “ un rettangolo di ammutinamento “, ossia, scrive Sandra Guddo “ un vero baluardo di resistenza che non può cedere il passo ai burattinai dei poteri occulti che si nascondono dentro le potenti organizzazioni delle multinazionali che, attraverso un processo di appiattimento, depauperamento ed annichilimento dei valori legati alle nostre tradizioni, ci impongono modelli di comportamento basati sulla omologazione, annullando la peculiarità di un popolo “ . (pp. 7-8 ).
Ad una società smarritasi, inseguendo le evanescenti falene dell’effimero, Romano contrappone il luminoso palinsesto dell’infinito, quella rizomatica rete tessuta da mani invisibili che Egli rende con la possente metafora ricavata dalla fusione di due termini (  mosaico – cosmo ) : Mosaicosmo.
E’ lì che va a sciogliersi come nebbia al sole ogni vicenda storica, regolata dalla gerarchia del prima e del dopo e contrassegnata dal paradigma ripetibile delle scansioni di sviluppo e decadenza, di migrazioni e ritorni, di fermate e ripartenze, per ricomporsi in un sistema armonico di coerenze dove nulla è marginale e tutto è centro.
La simbolica superficie mosaicata che riveste le pareti della Casa Celeste, non è soggetta alle incrinature e ai cedimenti ai quali non sfuggono, sulla terra, “ i grandi zoccoli immobili e muti” delle continuità secolari di cui parla Foucault. Niente può scalfire la singola tessera microcosmica incastonata nel macrocosmo. Ciò significa che anche il più oscuro individuo che Romano definisce “ milite ignoto dell’ordinario” rappresenta, commenta l’Autrice, un “ tassello vivo che contribuisce alla costruzione del complessivo disegno di quel mosaico di cui è corresponsabile, senza alcuna differenza tra il grande Napoleone e il piccolo raccoglitore di lattine: entrambi, ognuno a modo proprio, trovano posto nel mosaicosmo “ ( pag.11 )
Possiamo dedurre come la cosmologia romaniana si regga sull’ordo amoris,  quell’amore ordinato di cui parla S. Agostino al quale Romano costantemente si richiama. Si tratta di un ordo che , come precisa Remo Bodei, è il risultato della libertà umana e dell’obbedienza a un comandamento divino. Illuminato il passaggio degli uomini attraverso le angosce di questo mondo, spremuto come in un frantoio dalla macina della fame, della guerra, della morte li guida verso il Paradiso, dove il desiderio potrà finalmente placarsi senza spegnersi e ognuno, rimossa l’opacità della carne, conoscerà finalmente se stesso” ( R. Bodei, Ordo Amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna , Il Mulino 1991 ).
Sappiamo del legame spirituale di Romano con S. Agostino. Se  il Vescovo di Ippona è “ un tenace e inflessibile combattente, in continua lotta contro gli eretici e i pagani, un formidabile organizzatore del consenso in difesa dell’ortodossia “ ( R. Bodei, op. cit. p.44 ), Romano è in perenne conflitto con i manipolatori delle coscienze ed i nuovi barbari, rivelandosi nel contempo un formidabile organizzatore del consenso in difesa della tradizione. E’ interessante constatare, poi,  come Romano ammiri gli anacoreti, così come li ammira S. Agostino ( R. Bodei, op.cit. p. 181 ).
Toccando poi il tema del viaggio, così caro al Nostro, Sandra Guddo rileva come, nella sua ottica, “ il viaggio è un avventuroso percorso per raggiungere la completezza, la perfezione che in questa terra ci sono negate” , aggiungendo che esso “ talora è inteso anche come ricerca delle nostre più lontane radici, come accade in “ Pellegrino al Pellegrino “ ( 1998) , dove l’uomo ritrova nelle grotte di Alcantara la testimonianza delle sue origini” (p.12 ). E così il preistorico abitatore di quegli anfratti, osservato dal crinale della paleontologia, rientra prepotentemente per Romano, nell’area del dibattito cosmologico e teologico, al pari del sinantropo scoperto nel 1926 dalla spedizione scientifica in Cina,  di cui faceva parte Pierre Teilhard de Chardin. Nel cavernicolo dell’Addaura, parente stretto del sinantropo, si manifesta, ancora impercettibilmente tra scheletro e pelle , un fremito segreto, quasi un brivido,  che è tensione verso l’Assoluto: a quell’obiettivo entrambi tendono in modo inconsapevole. E’ la meta finale che Theilard chiama “ punto omega”, ossia il Cristo cosmico, punto di aggregazione dell’umanità tutta ( “ cristo sfera” ) mentre Romano la chiama Mosaicosmo. Trova finalmente appagamento, per Theilard come per Romano, la ricerca veritativa di chi ripone il proprio destino nel supremo dogma dell’Essere. Il binomio verità – trascendenza costituisce così l’asse portante del pensiero di Romano,  così come lo è per Theilard. Quest’ultimo, nel suo Esquisse d’un Univers personnel,  del 4 maggio 1936, così si esprime, con parole che Romano accetterebbe totalmente, trovando una prospettazione armonica dell’ Universo, con tutte le sue interrelazioni, che coincide perfettamente con il Mosaicosmo: << La Verità non è altro che la coerenza totale dell’Universo in rapporto ad ogni punto. Perché dovremmo mai avere in sospetto o sottovalutare tale coerenza, per il solo fatto che siamo noi stessi gli osservatori? Si  continua ad opporre una certa illusione antropocentrica a una certa realtà obiettiva . E’ una distinzione illusoria. La verità dell’Uomo è la verità dell’Universo per l’Uomo, cioè semplicemente, la Verità>>.
Sandra Guddo sa rilevare con intuizioni felici la pregnanza speculativa della dialettica microcosmo – macrocosmo che è quanto dire immanenza – trascendenza, e, alla luce, di tale visione, chiarisce l’influenza dell’estetica Kantiana sul pensiero estetico di Romano per il quale “ è possibile affermare che l’arte rappresenta la perfetta sintesi che mette in contatto il mondo fenomenico con il noumeno realizzando così la più compiuta operazione trascendentale il cui risultato è appunto l’opera d’arte: non solo immanente né solo trascendente ma fusione di entrambe che conferiscono così all’opera d’arte valore universale” ( Pag. 42 ).
I vari scritti sul Bello di Tommaso Romano rappresentano l’ultima germinazione di una cultura estetica che proprio in Sicilia ebbe la sua nascita, se si considera che spetta a Gorgia da Lentini il merito di aver formulato la prima teoria estetica. A sottolinearlo è Luigi Russo Junior che, intervistato da Bent Parodi, fa notare come il rapporto primigenio della Sicilia con l’estetica  giunga fino a noi - e qui ci va di pensare proprio a T. Romano, attraverso nessi numerosi e ramificati . ( conversazione riportata da Niccolò d’ Alessandro in  La situazione dell’arte in Sicilia “(1940 – 1988 , Palermo, 1991, p. 197 ).
L’ideale supremo di Gorgia fu quello dell’innalzamento della cultura tramite l’effetto psicagogico della parola ed il suo magico potere di incantamento.
Sulle tracce di Gorgia , Romano oggi ribadisce il potere di incantamento dell’arte ed il suo valore rigenerativo rispetto all’esistente, parole che si rivelano in sintonia con l’esortazione di T. W Adorno : “ facciamo in modo che la sua carica trasgressiva e creativa governi i nostri atti quotidiani , che la esteticità non venga relegata entro spazi ben definiti e resa innocua, ma possa, accanto alle altre dimensioni dell’esistenza, aiutarci a violare il principio dell’immutabilità del mondo. “
Le parole di Adorno vanno dunque in direzione della società estetica integrata preconizzata da Marcuse. Anche Romano sarebbe d’accordo su una prospettiva in cui l’estetica verrebbe ad avere un ruolo totalizzante, solo che, rispetto alla visione marxista che connota le posizioni dei pensatori di Francoforte, la sua ottica è assolutamente spiritualista, Perciò ci sembra che non potrebbe non condividere una riflessione di un artista che rappresenta una bandiera dello spiritualismo: Kandinsky: “ La vera opera d’arte nasce dall’artista in modo misterioso, enigmatico, mistico. Staccandosi da lui assume una sua personalità e diviene un soggetto indipendente con un suo respiro spirituale e una sua vita concreta. Diventa un soggetto dell’essere. Non è dunque un fenomeno casuale, una presenza anche spiritualmente indifferente ma ha, come ogni essere, energie creative attive. Vive, agisce e collabora alla creazione della vita spirituale. ( Lo spirituale nell’arte, tr. it Bari, 1976 ).
A colpire è la precisione esegetica con la quale Sandra Guddo sa andare al cuore dei problemi, procedendo sul filo di una minuziosa tassonomia che le dà modo di illustrare i vari versanti in cui spazia la multiforme attività di Tommaso Romano. Esemplare per quanto concerne la ricerca della verità, è l’indipendenza di giudizio con cui Romano affronta la ricerca storica in contributi da considerare ormai fondamentali sulla storia della Sicilia, come per i testi Sicilia 1860- 1870. Una storia da riscrivere ( Palermo ISSPE, 2011 ),  Dal Regno delle Due Sicilie al declino del Sud ( Palermo Thule, 2010 ) ,  Vittorio Amedeo II di Savoia Re di Sicilia  ( Palermo ISSPE 2013) e il corposo contributo biografico- antologico Contro la rivoluzione la fedeltà. Il marchese Vincenzo Mortillaro cattolico e tradizionalista intransigente ( 1806. 1888) , Palermo ISSPE 2012
Riferendosi proprio allo studio su Mortillaro, Sandra Guddo vi ravvisa, cogliendo nel segno, un’esemplare applicazione del metodo euristico nell’approccio ad un vero protagonista della vita politica e culturali dell’ottocento in Sicilia.
Va riconosciuto a Romano il merito, nell’ambito della dichiarata necessità di una “ riscrittura “ della storia di Sicilia per il decennio cruciale 1860-1870, di aver restituito piena dignità a quella figura di intellettuale, scienziato, ideologo e leader di parte legittimista – borbonica nel decennio citato, sottraendola finalmente alla nebulosa approssimazione di dati biografici sommari e talora distorti per l’effetto di alterazioni ideologiche tese ad una sua marginalizzazione.
Il lavoro assume dunque una chiara valenza risarcitoria a fronte dell’offesa arrecata alla memoria storica di un personaggio di altissima levatura politica, culturale e morale,la cui “ unica e costante preoccupazione … fu, comunque, esercitare sempre lo spirito di servizio verso la Sicilia, che egli credette bene servire con il consueto senso di indipendenza, a volte rifiutando lauti compromessi soprattutto nell’ultimo decennio del Regno borbonico, accettando di contro incarichi di alto livello burocratico, ma certo pari al suo valore ( pag.49 ).
Il testo nella sua strutturazione storico-antologica, riporta pagine di grande interesse degli scritti del biografato, che ci consentono di ripercorrere l’” arco lungo e tempestoso” (p.69) che conobbe la gloria del “ turbinio di pubblici incarichi “ , e poi, con il disarcionamento, il sapore amaro della polvere.vL’esatta posizione di estrema coerenza e lealtà che Mortillaro seppe tessere nelle vicende post-unificazione, quando fu oggetto di denigrazione e di persecuzione, è per Romano un obiettivo essenziale , al fine di colmare “ una lacuna anche interpretativa “ a fronte delle molteplici realtà che componevano un frastagliato arcipelago. Quella lacuna, egli precisa, avrebbe finito per eclissare figure rappresentative, per la loro fermezza ed intransigenza, di quell’universo variegato dei dissidenti, patrioti operanti in Sicilia, critici quest’ultimi dell’Unità considerata come deliberata conquista del Sud o, magari, malsano conseguimento di un ideale che causò disagi, malesseri e rivoluzioni spesso colpevolmente silenziati o manipolati ad uso ideologico ( P 31).
Le pagine polemiche di Mortillaro contro gli effetti disastrosi per il sud dello statalismo del regno Unitario, sembrerebbero inserirsi in quella dialettica poesia- prosa presente in innumerevoli scritti del tempo, per cui nell’ottica di Alberto Asor Rosa, “ la nostalgia dell’età eroica … e la deprecazione della meschina età presente … diventano quasi subito componenti fondamentali dell’atteggiamento degli intellettuali italiani, preparando i pericolosi sviluppi successivi” ( La cultura in Storia d’Italia, vol. iv, Torino, 1975, p. 824).
Evidentemente Mortillaro ha in comune con costoro solo la deprecazione e non certo la nostalgia per i sommovimenti rivoluzionari e le guerre che, a partire dalla fine del settecento, portarono l’Italia a diventare una ed indipendente. Quando egli denuncia “ la prosa del presente” e cioè le varie criticità dinanzi alle quali il governo centrale mostra tutta la sua impreparazione ed inadeguatezza, non ha esitazione ad indicare la causa nell’” innaturale” processo di unificazione.
Mortillaro nelle sue rigorose ricognizioni sulla realtà economica del tempo, chiamava in causa le deficienze istituzionali, la pochezza morale della classe politica e le responsabilità amministrative nell’insostenibile aggravamento dello squilibrio economico Nord- Sud.
Così egli finiva per toccare temi che sarebbero stati ripresi dagli studioso più autorevoli della letteratura meridionalistica.
Pensiamo ad Antonio Gramsci, che, nel parlare esplicitamente di colonizzazione , faceva notare come le masse popolari del Nord non si rendessero conto del fatto che “ l’Unità non era avvenuta su base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale città- campagna, cioè che il Nord concretamente era una piovra che si arricchiva alle spese del Sud” ( Lettere dal Carcere ).
E pensiamo anche a Francesco Saverio Nitti, quando avvertiva che l’unificazione del mercato nazionale aveva “spezzato la schiena al Mezzogiorno “ e che il trasferimento al Nord dei beni espropriati si configurava come un autentico sacco.
Lo scenario di un’economia meridionale depradata e dissanguata dalla rapacità onnivora dello Stao unitario, era già stato tracciato da Mortillaroin severe considerazioni circa il gravame economico, la pressione fiscale ed il debito pubblico che la Sicilia, rispetto al Regno delle Due Sicilie, dove “ il ben fare è impossibile nell’attuale periodo di progresso che cade a spron battuto verso l’abisso” (p.76 ) Il lealismo di Mortillaro, dettato dalla convinzione del ruolo dei Borboni  come garanti di uno sviluppo economico già avviato con successo - la qualcosa trova conferma nelle ricerche di storia economica condotte da studiosi di varia estrazione ideologica, come Milone, Capecelatro e Carlò – non significò. precisa Romano, un miope irrigidimento su posizioni reazionarie ma seppe aprirsi anche ad ipotesi innovative, non escludenti una soluzione confederale da preferire al “ modello centralista e giacobino offerto dalla conquista sabauda. Non è difficile intravedere sul contributo di Romano l’omaggio empatico del tradizionalista di oggi, attento a non perdere di vista i valori fondanti della politica, all’ethos, all’intelligenza critica, alla profondità del sentimento religioso, alla sterminata varietà di interessi cultural e scientifici, all’erudizione sempre proiettata nel presente, del tradizionalista di ieri, che della fedeltà ai citati valori fondanti , fece una ragione di vita.
Nel recupero memoriale delle giovanili conversazioni con l’amico e Maestro Giuseppe Tricoli, l’Autore confessa la propria venerazione per quell’aristocratico dal “ sentire profondo … il quale propose, nell’arco lungo e tempestoso della sua vita, un ritratto di uomo consapevole delle sue irrinunciabili e non negoziabili posizioni di autentico tradizionalista nutrito dalla certezza nella fede cattolica e dalla sostanza del Vangelo, quest’ultimo inteso sempre come verità e ammaestramento per ogni uomo e per le genti tutte “( p.69).
Si potrebbe pensare che l’” intuizione empatica “ da parte dello storico-biografo non faccia che inverare certe considerazioni di Becker: “ la materialità della storia è sempre scomparsa, e i fatti della storia, qualunque cosa fossero un tempo, sono solo immagini ideali o quadri che lo storico compone per comprenderli … e i fatti della storia non esistono per la storia fino a quando egli non li crea, e in ogni fatto che egli crea ha parte la sua personale esperienza”. ( C.L. BECKER, Storiografia e politica, a cura di V. de Caprariis, Venezia, 1962, p. 118).
Un dato innegabile è contenuto in queste parole, quello della partecipazione diretta dello storico con il vibrante coinvolgimento del proprio vissuto. E questo vale pure per Romano, quando attente alla composizione del ritratto dell’aristocratico siciliano.
Sorgerà allora spontanea la domanda se non rimanga definitivamente preclusa ogni possibilità, da parte sua, di conseguire quell’obiettività che Marc Block, in Apologia della storia, non smette di raccomandare pur nella consapevolezza di una sfida all’utopia, come un dovere primario di ogni storico.
Ma la sfida di Romano all’utopia è vincente nel momento in cui egli riesce  a contenere il proprio abbandono empatico, imponendosi tutto un sistema di regole riconducibili proprio alla lezione delle  Annales circa la visione totalizzante della storia ed anche al nuovo orientamento storiografico affermatosi come contestualismo. Quest’ultimo, il cui pioniere è l’inglese John Pocock, richiede la precisa focalizzazione dei testi documentari nel loro concreto contesto storico, esigenza, questa avvertita anche da due grandi filosofi particolarmente cari a Romano, Martin Heidegger e l’allievo di questi Hans Georg Gadamer ( è un aspetto su cui richiama l’attenzione Paolo Pastori, alla notan. 20 del suo saggio introduttivo allo studio di Romano, p.29).
La ricognizione effettuata su quel “ colossale lavoro di antropologia dalle Opere e dalle Rimenbranze di Mortillaro di giunge nell’ambito di un lavoro,   direbbe Febvre, “ alla frontiera” dei vari settori disciplinari coinvolti( antropologia storica, economia, etnostoria, costituzionalismo, religione e senso del sacro, psicologia, tradizione orale ecc..) .  Tutto ciò nell’ottica di una ricostruzione “ totale “ delle forme in seno alle quali si “ è espresso “ l’illustre biografato.
Ponendosi fuori dal coro dei plaudenti alle “ magnifiche sorti e progressive” che sembravano arridere ad un’Italia unificata sotto lo scettro sabaudo, l’aristocratico siciliano si è espresso smascherando l’illusione annidata nel “ pensamento” di cui fu “ iniziatrice … l’italica contrada … volendosi ad ogni costo la nazione una ed indivisa “ ( La Fusione , in op.cit. , p. 104). Qui la sottolineatura “ad ogni costo”, stava ad evidenziare la forzatura astratta e velleitariadi un progetto sostenuto dalla “ bramosia “ del benessere materiale ed ottusamente proiettato “ a cangiare faccia a tutto in un momento”.
Sandra Guddo attribuisce allo studio di Romano un valore paradigmatico sotto il profilo dell’indagine biografica, mentre Paolo Pastori si spinge più oltre, vedendovi senza esitazione un modello di corretta contestualizzazione per gli studiosi di storia risorgimentale : “ Ed è quanto gli storici dovrebbero fare, particolarmente in Italia, a proposito della stria del nostro Risorgimento, purtroppo annebbiata da astrazioni e generalizzazioni ideologiche, dicotomiche, bi-polari riduttive, della complessità8 anzitutto interiore ai singoli personaggi o momenti storici) la quale dovrebbe invece essere oggetto di attenta indagine, ed appunto di una esegetica contestualizzazione “ ( p.15).
Nel porre l’accento sulla complessità del lavoro e nel precisare che essa è “ anzitutto interiore ai singoli personaggi e momenti storici “, Pastori coglie un merito indiscutibile di Romano, quello di non avere trascurato, nella sua visione à part entière, la dimensione psicologica dell’esistenza sia a livello individuale ( Vincenzo Mortillaro ) che collettivo ( il disagio delle popolazioni del Mezzogiorno nel vedere tradite, con l’unificazione, le loro aspettative.) L’indagine introspettiva è un tassello che non può mancare nel mosaico di una ricerca storica condotta su basi storico- antropologiche, e questo lo hanno capito gli studiosi che si muovono nella scia della rottura epistemologica che, secondo Lacan, Freud ha compiuto con il passato. Senza voler dare a detta indagine quella centralità che alcuni finiscono per darle ( pensiamo a Walter Reich che applica la sua conoscenza clinica della struttura caratteriale umana alla scena sociale e politica nel classico lavoro Psicologia di massa del fascismo. ) Romano sente di non poter fare a meno di calarsi nella profondità dell’animo di Vincenzo Mortillaro , cogliendo “ il ragionevole lamento dell’uomo male collocato” dinanzi alla tristezza dei tempi: “ E’ veramente spiacevole e duro nascere in epoche così sovversive ed immorali; nelle quali è impossibile trovare verità e sentimenti, accordo tra le parole e le azioni, sicché un uomo onesto si trova male collocato e prende, senza volerlo un grande disgudto della specie umana” ( Le false dottrine , p.27)
Eppure mai viene meno in lui la speranza dell’avvento di tempi migliori, confortata da una fede adamantina: “ Che i nostri figli almeno abbiano quella felicità, che il cielo a noi a da grande tempo ricusata! E sì che la vittoria è certa pei credenti “.
Con la oculata scelta di passi, Romano entra nella profondità dell’animo di questo grande Siciliano, manifestando un’esigenza introspettiva che già era avvertita dallo stesso Benedetto Croce quando, parlando delle trasformazioni che lo storico è tenuto a ricostruire, dava particolare rilievo a quelle che avvengono “ nella profondità degli animi … nelle virtù e nei sentimenti via via formati lungo i secoli e ancor vivi e operosi in noi ( B. Croce La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 1938, p.109).
La sofferenza esistenziale di Mortillaro è emblematica del profondo disagio che covava, in larghi strati della società italiana, Nel rutilante clima della Belle  époche, dietro la fantasmagorica spettacolarità di sontuose feste, imponenti parate, solenni inaugurazioni di monumenti, mostre e ricorrenze celebrative: e questo nell’intento di trasferire “ tutto nell’uniforme universo dell’idea nazionale “ ( N. Trangolgia , in AA. VV. Italia moderna , 1860-1900, vol.IV, Milano, Banca Nazionale del Lavoro, 1982,p.26).
L’approccio di Romano, per la molteplicità delle angolazioni, avviene dunque sul filo di una metodologia scientifica, senza essere scientista, nel segno di una logica determinata, senza essere deterministica, al riparo di quel metalinguaggio dogmatico ed astratto in cui trovano enunciazione  le presenti leggi del divenire storico-sociale . E’ quello il metodo che connota il corpus di ricerche che il Nostro dedica alla storia di Sicilia, nell’intento di scrostarla dai topoi convenzionali e dalle falsità accumulatesi nel tempo. Per questo il titolo che suggeriamo si potrebbe dare a quel corpus è “ Antistoria dei Siciliani, considerata la forte carica polemica che fa pensare al fortunato libro di Giordano Bruno Guerri, Antistoria degli italiani ( Milano, Mondadori, 1997). Qui il prefisso anti assume una forza contrastiva rispetto alle manipolazioni spesso ricorrenti nelle prospettazioni anche di storici togati.
Acuta lettrice di tutta la produzione saggistica del Nostro, Sandra Guddo non poteva trascurare “ Cafè de Maistre “, uscito prima che si pubblicasse la sua monografia. “ Sfogliare questo libro intenso e bellissimo, ricco di vibrazioni messianiche ed escatologiche, è come aprire uno scrigno pieno di gioielli rari e preziosi”. ( pag.48 ).
Nell’ultimo paragrafo della sua monografia “ I nuovi strumenti di comunicazione” , l’Autrice fornisce un opportuno chiarimento circa il rapporto di Romano con i nuovi canali di comunicazione, portatori di conoscenze capaci di calarsi nella rete di interstizi in cui si articola la struttura del mondo. Romano ha colto a volo le possibilità di crescita offerte alla Persona qualora, si faccia un corretto uso di detti mezzi che non vanno demonizzati. Ecco perché ha dato vita ad una decina di siti, come Thuleggi.blogspot.it; Cosmospirituale.blogspot.it e Mosaicosmoromanoblogspot.it  “ che danno la possibilità a chiunque di usufruirne in modo gratuito e gratificante ( … ) Una sfida che Tommaso Romano ha vinto in quanto la media delle visualizzazioni è ottima anche grazie alla qualità degli artisti, scrittori, poeti, saggisti, filosofi, sociologi, intellettuali che danno quotidianamente il loro contributo concettuale”( pag. 52 ).
Con i suoi blog e i suoi siti, Romano ha così aperto un orizzonte capace di offrire infiniti spazi di libertà e di auto espressione a quanti vogliono accedervi, mossi dalla consapevolezza che questi ultimissimi media tecnologici sono, come aveva affermato Mc Luhan e, sulle sue orme, il Bruner, un prolungamento ed un arricchimento dei media naturali. Sandra V. Guddo evidenzia in tal modo la capacità di mediazione da parte di Romano tra il luminoso retaggio del passato ed i processi mutativi che investono tumultuosamente il versante della comunicazione. Noi avvertiamo che la linea scelta saggiamente dal Nostro, risponde al presupposto che, come avvertono i Grinberg, la migliore strategia per gestire i processi mutativi sia quella di evitare “ la disintegrazione dell’oggetto totale che sta cambiando, così che le parti che non cambiano assimilano il nuovo mantenendo la coerenza dell’identità” ( Grinberg L - Grinberg R., Identitad y cambio, Nova Buenos Aires 1975; trad, it. Identità e cambiamento, Roma , Armando, 1992 ).
Ironica, come l’ Autrice stessa ammette, la conclusione finale “ bloggo ergo sum” con evidente riferimento all’apertura di Tommaso Romano alla galassia semiologica di questo nostro tempo.




sabato 6 maggio 2017

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

di Pier Felice degli Uberti

Conosco Tommaso Romano dalla fine degli anni ‘70 del secolo scorso, e già allora trasparivano i prodromi e lo svettare della sua profonda formazione culturale acquisita anche con la laurea in filosofia e pedagogia e la specializzazione in sociologia. Ho assistito alla fondazione di una particolare casa editrice, la Thule di Palermo, con un catalogo dei più svariati argomenti della tradizione difficilmente reperibile altrove, seguito da un impegno civico- politico che lo vide consigliere provinciale di Palermo nel 1990, poi assessore alla cultura della Provincia sino ad arrivare alla vice-presidenza e poi ancora assessore comunale alla Cultura della città di Palermo. Filosofo, letterato, antropologo, autore di saggi, raccolte ed interventi, ma anche poeta, ora ha dato alle stampe l’Elogio della Distinzione. Così si esprime l’autore nella Premessa: «Come è attitudine e desiderio dell’Autore di queste note, si è scelto di trattare ancora una volta un tema nodale, la Distinzione, tessendone l’Elogio. Certo, un libro come questo - realizzato grazie all’unione di saggi stesi da chi adesso scrive con un ricco e per certi versi unico Florilegio, fatto di frasi, aforismi, sentenze e brevi trattazioni tratte dalla Storia, dalla Filosofia e dalla Letteratura, nonché dalla ricerca scientifica e, inoltre, arricchito da un prezioso Saggio stilato e donato all’uopo dall’illustre studioso Amadeo Martin Rey y Cabieses e completato da specifica bibliografia - è sempre un rischio e un azzardo. L’obiettivo del testo è indicare ciò che è considerato inattuale e scorretto rispetto ai tempi che viviamo, propriamente per sottolineare la sempre permanente concezione di Aristocra­zia, Cavalleria, Nobiltà, intesi come segno e consapevolezza di Stile, per una risvegliata coscienza d’affinamento e qualificazione del soggetto, di Distinzione appunto, rispetto a tutto ciò che è, invece, conforme, standardizzato, massificato nel singolo e nel processo abbrutente informe come drammaticamente avviene nella società del nostro tempo. Recuperare, attualizzando in positivo, il concetto e la pratica della Distinzione, non si­gnifica certo proporre il disprezzo degli altri o la separatezza aprioristica e irreale. Tutt’altro. La Distinzione può essere perseguita da tutti, volendolo, ordinando le idee, seguendo studio, esempi e ciò che di nobile ditta dentro, riscoprendo l’unicità e l’irrever­sibilità che contraddistinguono da sempre ogni donna e uomo apparsi sulla terra, frutto di una Creazione e non di una ideologica e indimostrata “fede” evoluzionistica. La dignità è di tutti e per tutti. L’accrescimento delle virtù è ciò che, invece, seleziona e distingue. Quello che si propone, con ciò che indicano il titolo stesso e i fondamenti contenuti nel libro è, quindi, l’ideazione e forse l’utile realizzazione di un “manuale”, una sorta di codice di sopravvivenza e di riscossa, con un piccolo scrigno di saggezza che centinaia di Autori antologizzati di tutti i tempi ci donano e propongono, senza avere in occulta vista l’ombra di discriminazioni e razzismi di qualsiasi genere, questi sì reperti mostruosi d’ideologie e antropologie perverse e di un’idea zoologica dell’uomo che sfocia, in estremo, in immane selezione eugenetica. Tornare all’equilibrio e all’equità vera, alla sostanzialità del linguaggio, come ha insegnato Attilio Mordini, sono fonti necessarie per ristabilire e ridare qualità e organicità al corpo sociale, rivalutando, vivificandole, le naturali gerarchie dalla dimensione asfittica che viviamo, piuttosto che isterilirle del tutto, in una prospettiva virtuosa di miglioramento, realmente aperta, facendoci uscire, se solo lo si decidesse, dall’uniforme e non divenendo pedine forse inconsapevoli, strumenti di “élite” oligarchiche e dirigiste che impongono e orientano gusti, opinioni, costumi, mode, oltre che l’economia, la politica e lo stesso diritto, in nome di una astratta e falsa libertà. Quanto di più controcorrente, insomma, si possa proporre, in tesi, per una necessaria riforma intanto di sé stessi e, quindi, della comunità; riforma che potrebbe apparire, a prima vista, una mera illusione, una utopia o un disperato grido al deserto. Tuttavia, si deve partire o ripartire sempre da uno, dall’uno, perché proprio dall’Uno proveniamo e a Lui, se ci salveremo, torneremo. Anche in tempi apocalittici come sono quelli presenti, intrisi di “pioggia di zolfo e di piombo”. Distinzione, ancora, per mettere in evidenza e fare l’apologia di ciò che distingue spiritualmente, operando necessarie distanze rispetto alla babele delle volgarità; apologia dell’educazione e dell’etica tradizionale, della cortesia e della disponibilità, attitudine alla delicatezza e rispetto per tutti a cominciare dall’aiuto possibile - evitando la falsa retorica dell’umanitarismo - per i più sfortunati, emarginati, deboli, anziani, indifesi, recuperando così lo spirito e l’attitudine della più classica e nobile Cavalleria. La Distinzione è intrinsecamente aristocratica ed è anche un modo, un tratto, che rivela di ognuno lo stile, la raffinatezza, l’eleganza, la sobrietà, la finezza, il garbo uniti a discrezione, fermezza, signorilità e a gentilezza che fanno, ancora, affermare che quella tale Signora o quel tale Signore, sono soggetti distinti, capaci di promanare un’aura, un fascino, fino a poter raggiungere - in casi specialissimi - il vertice della regalità, anche in tempi di crisi e decadenza. E in effetti, malgrado tutto, si possono evidenziare positivamente non poche persone in grado di contrapporsi con equilibrio ai comportamenti di dozzinalità, rozzezza, volgarità, cafonaggine e violenza nei modi, negli atti, nelle parole. Ecco ancora una distintiva qualificazione che attiene all’essere o al mostrarsi gentiluomo o gentildonna, senza sottomissioni al divenire “zerbini”, gregari, sfruttati, e così privi di autonomia e personalità. Ancor di più, la Distinzione è atto e forma necessaria per saper indagare e distinguere ciò che è bene da ciò che è male, vista anche la vischiosità e la liquidità odierna che tendono, invece, ad annullare la capacità di esprimere valutazioni e giudizi, non separando il giusto dall’ingiusto, facendo così trionfare il relativismo e il minimalismo. L’esame plurale delle posizioni espresse da molti Autori - specie contemporanei o direttamente interpellati per realizzare l’Antologia che segue - non deve distogliere da quella costante che in effetti le unisce: il rifiuto in radice dell’uniformità e
dell’indistinzione fra gli uomini. Riconosceremo così coloro che pongono l’accento più sulla differenziazione del comportamento e dell’interiorità, della qualità e del merito inteso come una sorta di primato da sottolineare, rispetto a chi, invece, punta sulla ereditarietà, l’innatismo e sulla solidità della storia seppur ovviamente dinamica; entrambi in realtà concordano sulle cause dei processi dissolutivi, perniciosi aspetti della secolarizzazione e della tecnolatria, ponendo ipotesi di soluzione ad equazioni possibili di affrancamento, di distinzione appunto. Compito è trovare una sintesi alta (che non è il banale sincretismo), un’auspicabile convergenza che si possa porre come metodo e pedagogia della decisione anzitutto, per affrontare i processi critici sul piano esistenziale e spirituale, nella sottolineatura appunto della discretio, della Distinzione. Questi sono l’invito e il suggerimento che si lasciano, senza aprioristicità, allo studioso e al lettore. Omnia praeclara rara. Fare Apologia della Distinzione, saper uscire dal coro, prendere le distanze e indicare una via per ritornare liberi, padroni di se, riconoscendo anzitutto la selettività e il merito quali valori eminentemente aristocratici, da conquistarsi con una vita coerente con i prin­cipi alti professati, con dignità e con onore. Professare, insomma, “idee chiare e distinte”. Per essere e non per apparire». Nella premessa viene delineata tutta la materia contenuta nella pubblicazione, che è un unicum per i contributi portati, e per le tematiche oggi inusuali. I punti chiave ed i concetti vanno ricercati particolarmente nell’essenza delle parole che accompagnano il titolo dell’opera ricordando che la distinzione, il fatto di distinguere, è in senso attivo l’atto stesso o giudizio mediante il quale si distingue, cioè si riconosce e si afferma una intrinseca diversità fra esseri, apparentemente simili o analoghi o comunque posti in relazione tra loro. Le tematiche focalizzate trattano l’aristocrazia nel significato originario e più proprio, la prevalenza, il governo dei più meritevoli, intesi questi come coloro che sono moralmente e intellettualmente i migliori o i più valorosi, identificati poi, in un secondo tempo, con i nobili, quelli cioè che, per diritto di sangue, appartengono alla classe più elevata della società, nella quale costituiscono un gruppo privilegiato; la cavalleria, che era originariamente la Milizia a cavallo, e nel medioevo, era l’istituzione politica e sociale, della quale facevano parte i cadetti esclusi dalla trasmissione ereditaria del feudo, legati fra loro da un giuramento di fedeltà non a un signore, ma agli ideali di giustizia e d’onore, di difesa della fede, dei deboli, delle donne, secondo la morale celebrata dalla poesia cavalleresca; la nobiltà, o meglio la condizione e il fatto di appartenere alla classe dei nobili, di avere le distinzioni, le prerogative, i privilegi che erano connessi a tale appartenenza; ma anche il senso dell’eccellenza, della superiorità, derivante dalle origini e dalla tradizione, o dalla propria stessa natura, e anche elevatezza spirituale, perfezione morale o intellettuale, per indole, pensiero, propositi, sentimenti; lo stile, termine usato nelle più svariate forme dello scibile umano, ma anche come modo abituale di comportarsi, agire, parlare; il costume, la consuetudine; come signorilità di modi, discrezione e correttezza nel comportarsi; il tema attuale della barbarie, ovvero la condizione di un popolo barbaro che effettuò importanti migrazioni in vari parti del mondo nella civiltà primitiva e che oggi ancora designa un comportamento crudele e primordiale. Nella pubblicazione compaiono una miriade di persone che lasciano un loro pensiero conforme alla propria formazione e personalità, antica, moderna e contemporanea, spesso in antitesi l’una con l’altra, e con una cultura e visibilità umane ben diverse tra loro. Ogni testo dovrebbe servire alla loro identificazione e spesso è il meglio della loro produzione. Con un così elevato numero di contributi la poderosa opera si suddivide in tre corpi: un saggio dell’autore, un saggio di Amadeo-Martin Rey y Cabieses ed un lungo Florilegio di Autori (selezionati senza malizie araldico, genealogico nobiliari) ove figurano: Simonetta Agnello Hornby, Felicita Alliata di Villafranca, Maria Patrizia Allotta, Almanacco Nobiliare del Napoletano L’Araldo, Hans Christian Andersen, Achille Angelini, Fabrizio Antonielli d’Oulx, Ludovico Ariosto, Aristotele, Jules Amédée Barbey d’Aurevilly, Maurizio Barraccano, Giacomo C. Bascapè, San Basilio Magno, Walter Begehot, Hilaire Belloc, Benedetto XV, San Bernardo di Chiaravalle, Andrew Bertie, Severino Boezio, Matteo Maria Boiardo, Nicolas Boileau, Louis de Bonald, Francesco Bonanni di Ocre, Guglielmo Bonanno di San Lorenzo, Salvatore Bordonali, Giovanni Botero, Pierfranco Bruni, Edmund Burke, Robert Burton, Antonino Buttitta, Tommaso Campanella, Cristina Campo, Albert Camus, Gaspare Cannizzo, Giovanni Cantoni, Antonio Capece Minutolo di Canosa, Antonio Caprarica, Franco Cardini, Thomas Carlyle, Baldassarre Castiglione, Miguel de Cervantes, Arnolfo Cesari d’Ardea, Abate Cesarotti, Nicolas de Chamfort, Emil Cioran, Paul Claudel, Codice Cavalleresco Italiano, Paulo Coelho, Confucio, Plinio Corrèa de Oliveira, Manlio Corselli, Benedetto Croce, Fernando Crociani Baglioni, Giorgio Cucentrentoli di Monteloro, Jean Baptiste de la Curne de Saint- Palaye, Camillo d’Alia, Lucio d’Ambra, Gabriele D’Annunzio, Ugo D’Atri, Pier Felice degli Uberti, Massimo d’Azeglio, Da Ponte, Mozart, Dante Alighieri, Ferruccio De Carli, Gio Battista De Luca, Massimo De Leonardis, Federico De Maria, Roberto De Mattei, Giuseppe Della Torre, Goffredo di Crollalanza, Charles Dickens, Diogene, Maurizio Duce Castellazzo, Guillame Durant, Meister Eckhart, Francesco Emanuele e Gaetani di Belforte e di Villabianca, Epicuro, Eraclito, Felix Esqirou de Parieu, Euripide, Julius Evola, San Pier Giuliano Eymard, Marcello Falletti di Villafalletto, Giuseppe Attilio Fanelli, Massimo Fini, Domenico Fisichella, Gustave Flaubert, Jean Plori, Francesco I re delle Due Sicilie, San Francesco di Sales, John Fulton Scheen, Sigmund Freud, Luciano Garibaldi, Panfilo Gentile, Innocent Gentillet, Giuseppe Giacosa, Fausto Gianfranceschi, Vincenzo Gioberti, Sandro Giovannini, Giovenale, Domenico Giuliotti, Johann Wolfang Goethe, Nicolas Gómez dà Vila, Edmond e Jules De Goncourt, Salvator Gotta, Remy de Gourmont, Jacques Goussault, Arturo Graf, Romano Guardini, Guglielmo, Arcivesco di Tiro, Guido Guinizelli, Guittone d’Arezzo, Martin Heidegger, Heraldica, Angel Herrera Oria, Hirohito, imperatore del Giappone, Santa Ildegarda di Bingen, Incmaro di Reims, Henry James, Roberto Jonghi Lavarini, Ernst Jünger, Sören Kierkegaard, Tommaso Landolfi, Stefano Lanuzza, Leone XIII, Emmanuel Lévinas, Alberico Lo Faso di Serradifalco, Giorgio Lombardi, Leo Longanesi, Otto von Lossow, Costantino Lucatelli, Raimondo Lullo, Franco Maestrelli, Joseph de Maistre, Gennaro Malgieri, Thomas Malory, Giuseppe Manzoni di Chiosca, Oliviero de la Marche, Giovanni Maresca di Serracapriola, Carlo Marullo di Condojanni, San Matteo, Charles Maurras, Cesare Merzagora, Clemente di Metternich, Jean de Meun, Jules Michelet, Enzo Modulo Morosini, Thomas Molnar, Michel de Montaigne, Montesquie, Cirillo Monzani, Attilio Mordini, Carmelo Muscato, Napoleone Bonaparte, Friedrich Nietzsche, Novale, Michel Onfray, Alfredo Oriani, Diego Ortega, José Ortega y Gasset, L’Osservatore Romano, Pier Paolo Ottonello, Aldo Palazzeschi, Silvano Panunzio, San Paolo, Giovanni Papini, Vilfredo Pareto, Bent Parodi di Belsito, Blaise Pascal, Roberto Pecchioli, Camillo Pellizzi, Giuseppe A. Pensavalle de Cristoforo dell’ingegno, Francesco Pericoli Ridolfini, Regine Pernoud, Fernando Pessoa, Francesco Petrarca, Pio XII, Platone, Jacques Ploncard d’Assac, Porfirio, Antonio Possevini, Ezra Pound, Proclo, Alexander Sergeveich Pushkin, Rob Reimen, Jules Renard, Antoine Rivarol, Annibale Romei, Jean Rostand, Sforza Ruspoli, Roberto Russano, Alessandro Sacchi, Antonino Sala, Madaleine de Souvré de Sablé, Riccardo Scarpa, Emanuela Scarpellini, Friedrich Schlegel, Karl von Schmidt, Arthur Schnitzler, Arthur Shopenhauer, Seneca, Sergio Sergiacomi de Aicardi, George Bernard Shaw, Primo Siena, Sofocle, Luigi Athos Sottile d’Alfano, Othmar Spann, Edmund Spenser, George Ernst Stahl, Edgardo Sulis, Torquato Tgergeasso, Vanni Teodorani, Teognide, Gustave Thibon, Ludwig Tieck, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, San Tommaso d’Aquino, Cesar Carlos de Torella, Ugo di San Vittore, Marco Vannini, Diego de Vargas Machuca, Piero Vassallo,
Auvenargues, Marcello Veneziani, Giovanni Verga, Giambattista Vico, Carl-Alexander von Volbort, Karl Ferdinand Werner, Oscar Wilde, Roberto Zavalloni, Stefano Zecchi. Proprio per aggiungere un tocco che ben rappresenti le tante recensioni alla pubblicazione, riporto quella di Giovanni Taibi: «La distinzione per non perdersi nel mare magnum della volgarità di usi e di costumi oggi imperante, la distinzione per rivendicare la propria individualità davanti alla massa plaudente che ha come unico merito quello di correre in soccorso del più forte! Come distinguersi, come essere sé stessi, come vivere con stile in un tempo di barbarie? Sono queste le domande che si pone il saggio di Tommaso Romano “Elogio della distinzione”, (fondazione Thule cultura) in cui passa in rassegna l’esegesi e la storia dell’Aristocrazia, della Cavalleria e della Nobiltà. Se i natali danno in qualche modo un imprimatur necessario, questo solo non è sufficiente per fare di un uomo un gentile. Dante ce lo insegna: la vera nobiltà non risiede solo nella stirpe e nel sangue ma soprattutto nel cosiddetto cor gentile ovvero nell’animo capace di provare nobili sentimenti e comportarsi di conseguenza. A partire da questo assunto Romano, in quello che si può considerare un vero e proprio manuale del viver cortese, diventa guida sapiente per chi intenda intraprendere con totale disinteresse economico e professionale la strada verso la distinzione, contro la massificazione e la standardizzazione dell’uomo di oggi. “La distinzione può essere perseguita da tutti volendolo, ordinando le idee, seguendo studio, esempi e ciò che di nobile ditta dentro” (p. 5). Come d’altronde ci insegna il filosofo Epicuro: “Non la natura, che è unica per tutti, distingue i nobili dagli ignobili, ma le azioni di ciascuno e la sua forma di vita” (p. 68). Nella prima parte del libro troviamo l’Apologia della condizione singolare in cui Romano si appoggia a uno dei pilastri del suo pensiero: la Tradizione. Come ama spesso ripetere: “Tanto più forti saranno le sue radici tanto più l’albero (l’uomo) crescerà in altezza (morale)”. Dopo avere passato in rassegna il pensiero legato alla Tradizione Romano affronta un tema a lui particolarmente caro: la casa. Essa da semplice dimora diviene la cartina di tornasole da cui è possibile avere un identikit esatto di chi la abita, del suo (buon) gusto, del modo in cui passa il tempo libero, del valore che dà agli oggetti che diventano testimonianza delle sue esperienze di vita. Sapere distinguersi non può che passare dal modo in cui si vive la casa, dal rapporto che si instaura con essa ma questa non deve necessariamente essere un rifugio solitario, un eremo senza terra ma “può aprirsi, accogliere pochi e scelti interlocutori per goethiane affinità elettive... I libri, le suppellettili, gli oggetti, la musica, le buone persone, un animale fedele, la memoria ci faranno ala non certo ingombrante” (p. 22). Si può dunque affermare con Romano che la casa è la proiezione della propria identità. Dopo questa prima parte di carattere didascalico il volume presenta un florilegio di autori diversi, per stile, pensiero ed epoca storica, che nei loro scritti e nel loro pensiero hanno codificato regole e grammatica della Nobiltà, spiegato il motivo della nascita della Cavalleria e dell’Aristocrazia. In quelli più recenti, è presente la biunivoca corrispondenza tra caduta di valori dei nobili ideali e crisi del tempo storico presente. Tra le tante citazioni mi piace riportarne una di Nicolas Gomes Davila. Lo scrittore, aforista e filosofo colombiano così scrive: “Più gli uomini si sentono uguali, più facilmente tollerano di essere trattati come pezzi intercambiabili, sostituibili e superflui. L’uguaglianza è la condizione psicologica preliminare delle carneficine fredde e scientifiche”. Se ci riflettiamo bene, altro non è che un elogio della diversità alla rovescia cioè mettendone in evidenza i limiti autodistruttivi dell’uguaglianza intesa come obiettivo supremo da raggiungere per un popolo che vuol definirsi civile. Segue infine un saggio sulla Nobiltà, (scritto appositamente per Tommaso Romano) sulla Cavalleria e sull’Aristocrazia dell’illustre studioso, il nobile spagnolo Amadeo-Martin Rey y Cabieses, (Componente dell’Audizione Generale e Consigliere della Real Deputazione del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio nonché Membro Corrispondente del Collegio Araldico di Roma) storico e critico nell’ambito araldico-cavalleresco della Classe aristocratica e della Tradizione iberica, che mostra una particolare attenzione alla storia della nobiltà italiana. Lo scrittore spagnolo espone a chiare lettere quelli che sono i tratti distintivi della nobiltà: il rispetto della parola data, la bontà, la generosità, il valore e l’umiltà del cuore. Nel capitolo finale, prima di una ricchissima bibliografia, c’è il Congedo al Café de Maistre, in cui Romano, malinconicamente, constata come ai nostri tempi la cultura, l’arte, la tradizione, la stessa fede siano diventati degli pseudo valori da utilizzare a piacere per il proprio tornaconto. E allora cosa fare? La ricetta di Tommaso Romano è semplice eppur non sempre facile da attuare: “Resistere, pur sapendo di servire una causa perduta. Profferire parole e concetti solo quando richiesto, declinando con garbo ma fermamente la compagnia di arrivisti, molesti e insulsi; studiare e scrivere per sé e per chi egualmente non si piega. mostrare la bellezza e la potenza del creato. Tutto ciò con la ferma consapevolezza di stare in minoranza, in assoluta minoranza, forse testimoni attivi di una ipotetica, eventuale futura memoria” (pp. 133-134). Una voce fuori dal coro, un anticonformista assoluto che nella vita ha sempre seguito i suoi ideali a costo di rimetterci personalmente, pur di non abbassare la testa davanti al potente di turno. Questo è, ed è sempre stato, Tommaso Romano per chi lo conosce e a cui non fanno stupore le lapidarie frasi del suo “Elogio della Distinzione”. Per i pochi che non lo conoscono ancora, questa lettura servirà a comprendere la figura di un intellettuale a volte scomodo ma per questo più interessante da studiare perché, attraverso il capovolgimento della prospettiva, ci fa vedere la realtà con occhi diversi e disincantati». Nella nostra società detta globalizzata è meraviglia e sospetto affermare che ci si sente “cittadino del mondo”, senza per questo sentirsi cosmopoliti. Del resto Tommaso Romano è sempre andato contro corrente per quasi tutta la sua vita, per lui “L’Elogio della Distinzione” è l’elogio dovuto a chi si distingue dalla massa amorfa ed uniforme, di chi si tira fuori dal gregge, assumendo posizioni nette ed inequivocabili, fuori dai sofismi e dall’ambiguità, di chi pur ricercando la sintesi, rifiuta il sincretismo che attualmente sembra espandersi a macchia d’olio su tutte le questioni più importanti del mondo: da quelle politiche a quelle economiche e perfino alle questioni riguardanti la sfera più intima e privata del genere umano. Tommaso Romano, in questo mondo che cambia per opportunità i propri principi, muta le opinioni per ottenere nuovi benefici, inventa nuove soluzioni pescando dal passato, ha la particolarità che nei quasi 40 anni che lo conosco è rimasto quell’uomo serio, corretto, lineare, onesto con le sue pietre miliari che sono le stesse provenienti dalla nostra tradizione europea, dalla nostra identità cristiana, dalle nostre famiglie che ci hanno fornito quegli strumenti di saggezza utili a lavorare senza sosta per quella aristocratica società migliore che amiamo e a cui aspiriamo. Ho ancora negli occhi l’immagine di quel giovane che durante un suo convegno a Montecarlo in una dolce estate dei primi anni Ottanta, esprimeva ieri (come fa oggi) quella sintesi che non muta né può mutare sino alla fine della nostra moderna società, rappresentata e diversamente incarnata dai tanti personaggi che hanno lasciato quei loro messaggi che l’Elogio della Distinzione ci racconta nelle sue belle pagine. 
da: "Nobiltà", n. 137 anno XXIV, Milano, marzo-aprile 2017