lunedì 19 giugno 2017

Tommaso Romano, "Nel mio Regno dei Cieli" (Ed. All'Insegna dell'Ippogrifo)

di Giuseppe Bagnasco

Ed ecco trovarci ancora a leggere i pensieri di quell’Anacoreta occulto che ormai con animo ascetico guarda il disfacimento della società da quel luogo che nato come Eremo è diventato il suo Regno dei Cieli . Il poemetto, edizione all’Insegna dell’Ippogrifo, San Cipirello 2017, dopo l’ecclesiale introduzione di Salvatore Lo Bue, si apre al lettore d’impeto, nemmeno il tempo di una iniziale intitolazione, come verosimilmente accaduto, sgorgando quasi di getto dalle inesauribili vene filosofiche e pseudo razionali di quel Sovrano che risponde al nome di Tommaso Romano.
       L’Autore, districandosi tra i ricordi del Tempo dorato che fu e le odierne-antiche strade di Montevergini e Albergheria fino a quelle di Borgo e Serradifalco, finisce per  rifugiarsi quasi come un clandestino nel suo “Tempio” da dove, con volitiva e sofferta insularità, medita e dispensa con sorniona ironia, il suo dettato chiedendosi verso chi possa essere indirizzato quel flusso di pensiero veritativo che scaturisce imperterrito dal suo spirito liberante. E ironicamente, passo-passo esamina tutti i fallimenti registrati dal nostro Occidente nell’arco di duemila anni, siano essi appartenenti al dettato cristiano, a cominciare da quell’ Ama il prossimo tuo, a finire a quello laico-sociale dove le rivoluzioni storiche che dovevano affrancare l’uomo, sono alla fine approdate di fatto nelle mani di oligarchi senza bandiera i quali, incapaci di meritare onori ma pronti a chiedere miserie civettuole ,  servendosi di ipocrite parole quali democrazia e libertà, hanno dato spazio solo all’unico vero dio, il vero sovrano: il Denaro.
   Il Nostro, dentro il suo Regno dei Cieli, dove il plurale sta ad indicare tutte le sfaccettature del suo poliedrico pensiero, circondato e confortato laicamente da infinite rappresentazioni d’arte esistenti nel suo Regno-Museo, segno inequivocabile di distinzione, e dove comunque non fa difetto una Cappella di meditazione, curata con religiosa devozione, ecco dunque l’Anacoreta occulto trarre le sue amare  considerazioni conclusive ma non esaustive come un greco-filosofo  di  stampo platonico-hegeliano con cui l’Ammiraglio dalla sua Torre si identifica.
   Tra le tante osservazioni che il poemetto dispensa, Tommaso Romano sofferma il suo sguardo sulla relatività della cultura dell’Occidente cristiano chiedendosi cosa oggi ci consegna non il progresso, encomiabile nella misura del suo apporto all’umanità, ma il progressismo che avanza senza un limes. Un limes che apre le porte dell’Europa cristiana ai “barbari”che premono ai suoi confini. Assistiamo, giusto per richiamare un dato storico, alla seconda caduta dell’Impero Romano d’Occidente, solo che qui si tratta di tutto l’Occidente cristiano. Ed è in questa falla aperta che si infiltra l’ateismo e cerca di prendere piede l’Islamismo. Questa volta non un’invasione dal confine Reno-Danubiano ma dall’Africa islamica.
    Ne viene fuori un deserto abitato da avvoltoi senza Dio  dove il Verbo di Cristo si è sprecato senza che nemmeno fosse ascoltato, quasi una scelta obbligata  tra la Verità e il Vuoto. Un mondo dove oggi la parola civiltà  risuona  vuota e dove la primigenia “polis” si è smarrita nei bui vicoli ciechi al cui confronto i maltrattati “secoli bui” appaiono rifulgere di luce propria.  Unico appiglio per i pochi liberi viandanti l’avere tra i propri  il valore della distinzione. Una macchia oggi imperdonabile bollata dai massimalisti come eresia rispetto l’Egalitè o quell’egualitarismo strisciante, quello certamente eretico per il nichilismo che intrinsecamente racchiude, apportatore di un vento tanto subdolo quanto proditorio. Un vento che ha spento tutte le candele della saggezza, compresa quella della coscienza individuale fagocitata in quella  collettiva che il Durkheim fa nascere da una socializzazione meccanica e che perfino identificata con Dio. Si salva solo una candela. Ed è quella che il “sofologo” Romano mette, a ben proposito, sulla copertina del suo poemetto, opera dell’olandese Gerrit Dou, e posta emblematicamente tra una clessidra e un mappamondo (il tempo che passa e il mondo che scorre) a far luce su un libro che un anonimo astronomo consulta.
   E’ la rappresentazione plastica dello studio di un volume, probabilmente un testo sui “massimi sistemi” di Galileo, visto che il dipinto data 23 anni dopo la morte del grande artista-astronomo. E non sfugge al riguardo il fatto che l’eminente scienziato, davanti ai giudici del Tribunale della Santa Inquisizione, dovette abiurare i suoi studi sull’eliocentrismo, subendo  a distanza di 350 anni una parziale riparazione ad opera del papa polacco Giovanni Paolo II che annullerà formalmente il vergognoso processo visto che anche  il suo connazionale Copernico  circa un secolo prima del Galilei aveva formulato la medesima teoria. Ed è proprio la semiotica di quella candela, che in metafora esprime la luce della conoscenza, a dare  un secolo dopo il nome a quel movimento politico, sociale e filosofico a cui fu dato il nome di Illuminismo e al Settecento il Secolo dei lumi. Si può ascrivere a quel periodo il tempo in cui Cristo fu sfrattato dai Suoi altari. Sfratto ancora continuato fino ad oggi dai topi infetti, come li chiama l’Autore, che si adoperano per svuotare il significato del Suo Verbo presentandosi quali sedicenti rivelatori di verità occultate.
   Di fronte a tanta desolazione, il Cantore di Verità si ritrae in un silenzio ascetico consapevole che il tacere è la sola composta difesa da opporre.  Ma non l’ultima, giacchè di conserva c’è ancora un verbo da materializzare: resistere. Resistere quindi con paziente sopportazione forti soltanto di ciò che siamo e di ciò che noi sapremo essere e questo  per sopravvivere finchè possibile.
   Leggendo Nel mio Regno dei Cieli  non c’è bisogno di orpelli agiografici per identificarsi in questi pensieri veritativi. Questa del poeta-filosofo Tommaso Romano, signore del “ Muffoletto del Beato”, non è solo un’accorata denuncia ma una sorta di “grido di dolore” di sabauda memoria, che si leva contro l’eretica secolarizzazione della società e nella fattispecie contro quella TV- spazzatura, che penetra serpeggiando dentro la sacralità delle famiglie per apportarvi la cultura quantizzata del non-essere e del nulla. Egli pertanto si rivolge ai pochi appestati dalla fedeltà sempiterna perché si difendano dai coccodrilli ipocriti che coniano falsi concetti manipolando uomini a cui propinano favole sul nuovo concetto di felicità. Felicità raggiungibile con l’alienazione dell’anima e la vendita del corpo, per uomini che, secondo il Lo Bue, “ sono perduti senza perdizione nel vuoto regno del niente”.  Un niente, aggiungiamo noi, fatto di promesse non mantenute, di sogni ceduti all’oscuro viatico del materialismo, di momenti di vita sorretta da errori per compiacere l’Io adulatore, di pentimenti tardivi e mai veri. Un niente dove regna solo il silenzio fatto di nulla. Un vuoto assoluto senza luce né suoni e per i quali, aggiunge Romano, il Dio non solo non c’è mai stato ma neppure ha dato e creato.
    Il poemetto di appena 99 copie numerate, fatta salva la presentazione, si compone di dodici pagine, giusto dodici come il numero dei discepoli di Gesù, e si presenta a verso volutamente libero per consentirne la particolare struttura di rottura di ogni schema prefissato la cui articolazione appare come scomposta ma organicamente unitaria. Esso non contiene massime, non addita un codice comportamentale, né alcunché che possa richiamare il “Discorso della Montagna” con intenti etico-educativi, ma afferma negando, giacchè la negazione è l’affermazione dell’esistenza. In fondo è un elogio alla meditazione e un tentativo per svegliare gli animi, per riflettere come invertire una cultura di vita oggi quantizzata . Sostituire pertanto alla “massa” del corpo la ricerca dello spirito attraverso un viaggio interiorizzato alla riscoperta dell’anima, di quell’anima che è un credo di principi si da guidare il suo ritorno all’uomo. Solo così  l’uomo-individuo può impossessarsi nuovamente di sé stesso con una ritrovata coscienza che lo conduca verso una seconda via che lo allontani dal baratro del progressismo esasperato che con sempre nuove invenzioni vuole liberare l’uomo dalla sua natura e sostituirsi al Creatore. Negli intendimenti di Tommaso Romano, nello specifico dissacratore-costruttore, si può pertanto cogliere una speranza , quella speranza, mai tardiva e inutile, di restituire la parola all’uomo “meccanico” e all’intera famiglia del mondo cristiano attraverso il pensiero veritativo  della parola di un Maetre à penser, quale è Romano, che a buon diritto si annovera tra gli  umili servitori della Verità.         

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